I medicinali equivalenti (o generici)
Introduzione
I medicinali equivalenti,
soprattutto in Italia, hanno sempre trovato un freno al loro utilizzo. Anche se
negli ultimi anni c’è stato un incremento dell’uso, i livelli sono bel al di
sotto di quelli di altri paesi europei. Basti pensare che, mentre in Italia su
10 scatole di medicinali acquistate solo 2 sono medicinali equivalenti, in
Germania gli equivalenti occupano la metà del mercato.
Questo molto
probabilmente è dovuto al fatto che questi medicinali sono visti dai pazienti
come un prodotto che associa a un minore prezzo una minore efficacia e/o una
minore qualità. Siamo abituati a pensare che se un prodotto costa meno sia di
minore fattura, con questo testo vi spiegherò che per i medicinali non è così.
Che cosa sono i medicinali equivalenti (o generici)? Sono efficaci tanto quanto gli originali?
La nozione di “medicinale
generico” è stata introdotta nell’ordinamento italiano con la legge n. 549 del
28 dicembre 1995.
Successivamente, dato che il
termine “generico” risultava fuorviante (veniva spesso percepito dall’opinione
pubblica come un rimedio con bassa specificità d’azione e bassa qualità), per
sottolineare che i medicinali “generici” sono “equivalenti” a tutti gli effetti
al medicinale di riferimento, con la legge n. 149 del 26 luglio 2005 viene di
fatto sostituita la denominazione “medicinale generico” con quella di
“medicinale equivalente”.
La definizione più recente di
medicinale equivalente è data dal decreto legislativo n. 219 del 24 aprile 2006,
che lo definisce come “un medicinale che
ha la stessa composizione qualitativa e quantitativa di sostanze attive e la
stessa forma farmaceutica del medicinale di riferimento, nonché una
bioequivalenza con il medicinale di riferimento dimostrata da studi appropriati
di biodisponibilità. I vari sali, esteri, eteri, isomeri, miscele di isomeri,
complessi o derivati di una sostanza attiva sono considerati la stessa sostanza
attiva se non presentano, in base alle informazioni supplementari fornite dal
richiedente, differenze significative, né delle proprietà relative alla
sicurezza, né di quelle relative all'efficacia”.
Questa definizione potrebbe risultare
difficile da comprendere, soprattutto se non si hanno conoscenze in ambito
farmaceutico. Cerchiamo di capire insieme di cosa si tratta.
La prima frase
recita: “è un medicinale che ha la stessa
composizione qualitativa e quantitativa di sostanze attive del medicinale di
riferimento”. Questo sta a indicare che un medicinale, per poter essere
considerato equivalente ad uno di riferimento, deve presentare gli stessi principi
attivi alla stessa dose.
Inoltre dice anche che l'equivalente deve essere prodotto nella stessa “forma farmaceutica” del riferimento. Per "forma farmaceutica" si intende quella forma sotto cui si presenta un dato medicinale, ad esempio tra le forme
farmaceutiche solide ricordiamo le compresse e le capsule.
Quindi, se un medicinale
di riferimento è una compressa che contiene 500 mg di paracetamolo e 30 mg di
codeina, allora necessariamente il medicinale equivalente dovrà essere una
compressa contenente 500 mg di paracentamolo e 30 mg di codeina.
Due specialità
che contengono gli stessi principi attivi nella stessa quantità e che si
presentano nella stessa forma farmaceutica prendono il nome di equivalenti farmaceutici.
Questo basta
per avere la stessa efficacia? No, infatti gli eccipienti e il metodo di
produzione possono essere diversi tra le due specialità, e questi fattori tendono ad influenzare la “biodisponibilità” dei farmaci. Ecco
perché la definizione poi precisa che il medicinale equivalente deve essere
anche “bioequivalente” al medicinale
di riferimento, cioè deve presentare la stessa biodisponibilità.
La biodisponibilità si definisce
come la quantità di principio attivo che viene effettivamente assorbita
(passa nel circolo sanguigno) e la velocità attraverso cui questo
avviene. Maggiore è la biodisponibilità, maggiore è la quantità e/o velocità di
principio attivo che passa in circolo; questo dipende dalla dose, dalla forma
farmaceutica e dagli eccipienti usati.
Se quindi questi equivalenti
farmaceutici sono anche bioequivalenti, potranno definirsi equivalenti terapeutici, cioè
specialità che presentano la stessa efficacia terapeutica!
Cosa si intende per “medicinali
di riferimento”?
I medicinali di riferimento non
sono altro che dei medicinali cosiddetti “originali” per i quali è scaduto il
brevetto.
Quando dura il brevetto di un
medicinale?
Il brevetto di un medicinale
garantisce, come per tutte le altre invenzioni, la facoltà esclusiva di
sfruttamento dalla data in cui ne è stata depositata la domanda. La sua durata
base è di 20 anni, però dato che dalla data di presentazione della domanda di
brevetto a quella di rilascio della prima autorizzazione all'immissione in
commercio di un medicinale, possono trascorrere anche numerosi anni (di solito
tra gli 8 e i 12 anni) che andrebbero a ridurre drasticamente la possibilità di
sfruttamento esclusivo dell'invenzione, la legge n. 349 del 19 ottobre 1991 ha
istituito il cosiddetto Certificato Complementare di Protezione (CPC) che
consentiva l'estensione del periodo brevettuale dei medicinali fino ad un
massimo di 18 anni oltre la scadenza naturale del brevetto. In questo modo
però, in Italia, tenendo conto dei venti anni di protezione brevettale, la
copertura totale garantita ha potuto estendersi fino ad un massimo di 38 anni
dalla data di deposito della domanda di brevetto stesso.
Queste disposizioni a
carattere nazionale sono state poi di fatto abrogate dal Regolamento CEE n.
1768 del 1992, che ha istituito il Certificato Protettivo Supplementare
(Supplemetary Protection Certificate - SPC), che garantisce un’estensione che
può andare da 0 a 5 anni, con durata brevettuale che sarà quindi compresa tra i
20 e i 25 anni, a seconda dei casi.
Una volta scaduto il brevetto,
per tale medicinale si potranno produrre gli equivalenti.
Per quanto riguarda la qualità
dei medicinali equivalenti?
La qualità dei medicinali
equivalenti viene verificata dagli organi competenti (AIFA o EMA) adottando gli
stessi criteri di valutazione utilizzati per il medicinale di riferimento. Tale
verifica viene condotta su due piani distinti: da una parte attraverso
l’ispezione alle officine di produzione dei principi attivi e del medicinale
finito per valutarne la conformità alle Good Manufacturing Practices (GMP) o
Norme di Buona Fabbricazione (NBF), che sono un insieme di procedure che devono
essere messe in atto dal fabbricante a partire dall’approvvigionamento delle
materie prime fino al rilascio sul mercato di ciascun lotto del medicinale al
fine di garantirne la massima qualità; dall’altra mediante l’attento controllo
della documentazione presentata nel dossier di registrazione. Controlli
relativi alla qualità, effettuati attraverso le attività di ispezione presso i
siti di produzione di medicinali e di materie prime, devono rispondere a
standard definiti a livello europeo.
Perché i medicinali equivalenti
costano meno di quelli “di marca”?
Normalmente per ottenere
l’autorizzazione all’immissione al commercio di un qualsiasi medicinale,
l’industria deve stilare un dossier che prende il nome di CTD (Common Technical
Document).
Esso è un documento costituito da 5 moduli dove sono riportate tutte
le informazioni relative al farmaco. Viene presentato all’organo competente
che, se tutto è nella norma, darà l’ok per la vendita.
Il contenuto dei 5 moduli è rappresentato
da:
Modulo 1: informazioni
amministrative
Modulo 2: riassunti dei moduli 3,
4 e 5.
Modulo 3: informazioni chimiche,
farmaceutiche e biologiche del farmaco (qualità del farmaco)
Modulo 4: risultati delle
sperimentazioni pre-cliniche (su animali da esperimento)
Modulo 5: risultati delle
sperimentazioni sull’uomo
Se il principio attivo è una
nuova entità chimica, allora il dossier dovrà essere completo.
Se invece il principio attivo del
medicinale da commercializzare è una sostanza già presente in altri farmaci (come nel caso di medicinali equivalenti), allora in questo caso le prove
pre-cliniche non dovranno essere ripetute, e gli studi clinici saranno limitati
solo a studi di bioequivalenza.
Di conseguenza l’industria dovrà
sottostare a costi molto più bassi per ottenere l’autorizzazione alla
commercializzazione del medicinale equivalente e quindi anche il prezzo finale
del medicinale sarà molto inferiore rispetto a quello di marca.
Inoltre, per evitare che le
industrie utilizzino dei prezzi comparabili con quelli dei medicinali di
riferimento per ottenere maggiore profitto, è stato posto per legge che il
medicinale equivalente deve essere commercializzato ad un prezzo almeno il 20%
più basso del medicinale di riferimento.
Come si sviluppa uno studio di
bioequivalenza?
Il numero minimo previsto di
volontari per uno studio di bioequivalenza è di 12, sebbene per meri motivi statistici i
risultati dello studio sono più affidabili con un numero di soggetti pari ad almeno
24; in alcuni casi il numero può essere anche superiore a 40. I volontari
arruolati devono in genere avere un’età compresa tra i 18 e i 55 anni e le loro
abitudini (attività fisica, quantità di acqua bevuta giornalmente, dieta, ecc)
devono essere standardizzate al fine di ridurre al minimo la variabilità.
Gli
individui vengono divisi in due gruppi, in una prima fase ad uno verrà
somministrato il medicinale equivalente e all’altro il medicinale di riferimento,
in una seconda fase quelli che precedentemente hanno ricevuto il medicinale
equivalente riceveranno quello di riferimento e viceversa.
Lo studio deve
essere condotto in “doppio cieco”, vale a dire né i volontari arruolati né
l’operatore sanitario addetto alla somministrazione sanno quale dei due
medicinali viene somministrato.
Subito prima della somministrazione viene
prelevato un campione di sangue per confermare l’assenza di qualsiasi traccia
di medicinale.
Dopo la somministrazione, a intervalli di tempo prefissati, ogni
volontario è sottoposto a prelievi di sangue sui quali verrà ricercata e
quantificata la molecola del principio attivo, per un periodo minimo di 24 ore.
Dalle concentrazioni di farmaco trovato nel sangue nelle 24-48 ore successive la somministrazione,
si costruirà, per ogni paziente, una curva che riporta la concentrazione
plasmatica di farmaco in funzione del tempo, sia per il medicinale equivalente
che per quello di riferimento, e da queste curve si ricaveranno i valori medi e
le deviazioni standard della concentrazione massima del medicinale nel sangue (Cmax), del tempo impiegato dal farmaco per raggiungere la Cmax (tmax)
e dell'area sotto la curva ottenuta (AUC), per il medicinale equivalente.
Questi tre
parametri sono importanti per definire la biodisponibilità del medicinale
testato.
Per ogni parametro si otterranno degli intervalli di fiducia,
costituiti dalla media ± la deviazione standard. Questi intervalli di fiducia
quindi vengono confrontati con i parametri già conosciuti per il medicinale di
riferimento.
Il medicinale testato può considerarsi bioequivalente con quello
di riferimento se gli intervalli di fiducia di Cmax e AUC si trovano
all’interno dell’intervallo -20%/+25% dei valori del medicinale di riferimento,
e se l’intervallo di fiducia di tmax si trova all’interno dell’intervallo
±20% della tmax del medicinale di riferimento.
Da quanto detto si può intuire
che la biodisponibilità del medicinale equivalente potrebbe non essere
esattamente uguale a quello del medicinale di riferimento, ma potrebbe essere
leggermente minore o maggiore.
Solitamente quindi la
sostituzione di un “originale” con un “equivalente” comporta una variazione
della biodisponibilità trascurabile. Mentre la sostituzione di un “equivalente”
con un altro “equivalente” potrebbe portare ad una variazione più ampia della
biodisponibilità e quindi non è consigliata.
FONTI:
http://www.assogenerici.it/it/studi-e-analisi/generici-equivalenti-europa.htm
http://www.assogenerici.it/it/visualizza/guida-aifa---medicinali-equivalenti---qualita--sicurezza--efficacia.htm
http://www.assogenerici.it/it/generici-equivalenti/generici-equivalenti-brevetto-certificato-complementare.htm
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